Il dovere della profezia

Il dovere della profezia

Il dovere della profezia 150 150 Servizio Cristiano Riesi

L’accostamento del dovere, che descrive l’obbligo di fare qualcosa, alla parola profezia è problematico. La profezia, infatti, viene associata ad una sorta di capacità divinatoria, mistica: il parlare di rivelazioni ricevute direttamente da dio.

In realtà, e più semplicemente, dovremmo pensare alla profezia per ciò che è: un “dire avanti”, cioè raccontare oggi quel che potrà avvenire domani.

Questa frase, che ho “rubato” a Marcello Panzarella, ha per me un significato pienamente laico.

Non pochi sono stati i profeti “civili” che, con la loro lettura del presente e la capacità di interpretarlo in una chiave futura, hanno descritto con straordinaria vicinanza l’attualità.

Si pensi a George Orwell ed al suo 1984. Ma anche Huxley con il suo “mondo nuovo”. Scrittori, pensatori, che hanno in una qualche maniera “profetizzato” non poche derive che la società attuale ha ormai assunto come pratiche quotidiane.

Oggigiorno viviamo immersi in molte dinamiche che sembra descrivano con straordinaria precisione quel che è da venire.

Il futuro ci appare già delineato e definito. L’illusione tecnologica che tutto si compia entro la disciplina degli algoritmi ci inebria e, allo stesso tempo, ci deprime: tutto sembra già esistere anche se ancora non esiste, perciò si tratta di aspettare, cioè di tempi e non più di scoperte.

Pertanto la ricerca di una visione, altra parola dai contorni mistici anche se, in realtà, è molto più pragmatica di quel che si crede; la ricerca di una visione, dicevo, cioè di una prospettiva possibile del cammino delle società, appare un lavoro non utile, né necessario.

La letteratura distopica è relegata al rango di fantascienza e l’impegno “predittivo” dei filosofi, dei sociologi, degli architetti, dei registi, degli artisti, è annullato o ridotto al minimo.

Questo ripiegamento sull’estensione del presente, cioè sull’illusione che tutto si sta già compiendo o si sia già compiuto e che, diventare di dominio pubblico, sia soltanto un problema di scadenze e di tempi, ha esposto le società all’attesa senza sorpresa, senza scoperta, senza tensione tra presente e futuro.

Alla stregua dell’attesa per il nuovo modello di smartphone, che già comunque conosciamo e che riserverà ben poche sorprese da un punto di vista materiale, la vita non si confronta più con molte possibilità, ma soltanto con quelle ritenute possibili dagli indirizzi tecnologici attuali.

Questa impostazione è perciò trasferita alla lettura delle dinamiche sociali, umane, politiche e sterilizza ogni tentativo di visione “laterale”, cioè la necessità di guardare, oltre che davanti, al “futuro”, anche di lato.

Ed è infatti la sovrapposizione tra il futuro ed una prospettiva, davanti, che riduce fino a negarle altre possibilità.

Il futuro è davanti? E chi lo ha detto!

Il futuro può essere davanti a noi, come prospettiva temporale, ma come possibilità di cambiamento della società, degli usi, dei costumi, della politica, può benissimo trovarsi di lato; cioè in quelle intercapedini inesplorate, nascoste agli occhi e alle menti abituate a fissare davanti.

Con lo sguardo, le menti, le idee piantate davanti si autoavverano i presagi più funesti. Il popolo invoca l’uomo forte al comando perché non scorge più, lateralmente, i danni causati dagli uomini soli al comando. Guarda avanti e non ricorda più quel che sta dietro. In questo non c’è profezia, c’è stupidità.

Non è sempre stato così, ovviamente. E non molti anni fa, anche se potrebbero apparire secoli fa, uomini e donne, conoscendo il passato, leggendo la realtà, interrogandosi sul futuro, hanno saputo cambiare quel presente prossimo che sembrava già scritto e ineluttabile.

C’è un dramma, enorme, nel quale siamo immersi, che ci riguarda tutti e tutte, e del quale sembriamo non renderci conto.

Sto parlando della desertificazione delle aree interne della Sicilia e non solo. Mentre le società si svuotano di contenuti e, come cantava Angelo Branduardi, assomigliamo a “file e file di scatolette dove dentro è tutto uguale, in fila per non mancare dove si deve andare”.

Quello che alcuni chiamano spopolamento è uno svuotamento sistematico delle città, dei paesi. Mentre ci occupiamo dei grandi fenomeni migratori, ci siamo disinteressati, la politica colpevolmente si è disinteressata delle migrazioni interne che svuotando di vita, tradizioni, culture, memoria i paesi dell’entroterra, producono quindi abbandono, creano deserti. Nei deserti poi arrivano i predoni e la barbarie si compie, il dominio dell’uomo sull’uomo, della donna sulla donna diventa così ineluttabile.

Il futuro sembra essere già scritto: megalopoli nelle quali ammassarci senza tregua, città sempre più fagocitanti esseri umani che, così accalcati, saranno sempre più disumani.

In tutto questo la politica non sa proporre nulla: le azioni sono sbilanciate sull’economia, la fornitura di redditi senza il fare, che non bloccano né invertono la tendenza.

Come su altri fronti, anche su questo la politica non ha visione, non sa essere “profetica”, per il semplice fatto che i politici sono impreparati, incapaci di disegnare un modello di società che non sia quello già predeterminato dai processi sociali e soprattutto tecnologici in corso.

È compito quindi dei pochi partigiani delle domande, più che dei trovatori di risposte, farsi carico di profetare, cioè di dire avanti, di conoscere il passato, leggere la realtà e indicare un futuro possibile e diverso da quello davanti già segnato.

Questa sfida epocale, aliena alla politica ed ai politici, così come alle Università ed alle Organizzazioni che dovrebbero ragionare dal basso, non è più rinviabile né può essere ancora delegata.

Questa sfida, che non è certo per i deboli di spirito o di cuore, è rivolta a noi oggi, come parte di una testimonianza cui è stata rivolta la vocazione del dover fare e del profetare.

La voce di uno che grida nel deserto del tempo presente. In quel deserto reso tale dalla fuga delle famiglie dai luoghi, dalle tradizioni, dai sapori e mestieri, dall’umanità verso un futuro ingabbiato nell’ineluttabile ammassarsi di persone le une sulle altre, a creare strati sociali compressi e preparare nuovi domini dell’uomo sull’uomo, della donna sulla donna.

Abbiamo il dovere della profezia, di dire che davanti a noi tutto può confermare quel che sembra intravedersi, oppure no.

Ecco, il dovere della profezia è scompaginare l’ineluttabile, aprire varchi di speranza nel destino disperante e alienante che sembra aspettare i luoghi, le persone, le società.

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